GLI "ALLEATI"? VA
BENE, MA DI CHI ? UNA FOTO RICORDO VAL BENE UN PAESE
UNA TRAGICA HOLLYWOOD 1944, CASTELNUOVO
AL VOLTURNO Una testimonianza non di parte sui metodi di propaganda
americani
Francesco Fossa
Dal giugno del 1944 sono trascorsi quasi 60 anni, ma i ricordi di Giovanni
Tomassone, classe 1929, una vita da falegname a Castelnuovo al Volturno,
sono nitidi come se i fatti che stiamo per raccontare fossero accaduti
ieri: "... ma ancora oggi non capisco perché il mio paese che
fortunatamente aveva riportato solo pochi danni nella guerra vera del 1944,
è invece finito in macerie per una guerra finta".
È una storia assurda che ci riporta alla primavera del 1944,
quando Castelnuovo - un paesino di settecento anime appoggiate alla catena
montuosa delle Mainarde, dove nasce il fiume Volturno, in un angolo di
meridione incastrato tra Lazio, Molise, e Campania - viene tagliato da
quella linea che i tedeschi, in ritirata lungo lo stivale, hanno tracciato
sulle loro mappe: è la linea Gustav, un poderoso schieramento di
uomini e mezzi dispiegato da Cassino a Ortona che, secondo le intenzioni
del maresciallo Kesselring, dovrebbe bloccare l’avanzata degli alleate
sbarcati il 9 settembre del 1943 a Salerno. Castelnuovo al Volturno è
a circa cinquanta chilometri ad est di Cassino, a mezza costa sotto il
monte Marrone. Già dal novembre 1943 il paesino è stato evacuato,
o meglio rastrellato dai tedeschi, i suoi abitanti sono stati incolonnati
e trasferiti con treni merci, prima ad Anagni, poi più a nord, a
Ferrara e Modena. Solo un piccolo gruppo di persone, quasi tutti uomini,
si era sottratto alla cattura e per diversi mesi aveva sopportato il freddo
dell’inverno in anfratti e fienili nascosti dalla vegetazione. Tra questi
c’è anche Giovanni Tomassone, aveva 15 anni. "I tedeschi si
erano ritirati sulla cresta del monte Marrone e sulle cime circostanti
mentre gli americani avevano preso tutta la pianura sottostante. Collaboravamo
con loro indicando le postazioni, i nidi di mitragliatrice dei tedeschi...".
Fin qui la storia di Castelnuovo raccontata dall’anziano falegname
non è molto diversa dalle tante vicende belliche che segnano la
penisola nel 1944.
Dopo gli americani, nel paese fecero campo i nordafricani del contingente
francese. Ne morirono quasi mille tentando di conquistare la cima del monte
Marrone. Poi arrivarono gli alpini del Corpo Italiano di Liberazione. Saranno
proprio le penne nere del battaglione Piemonte a espugnare, all’alba del
31 marzo, la cresta a 1800 metri dalla quale si dominava tutta la valle
del Sangro. Il 16 maggio la battaglia di Cassino arriva al suo apice, l’Abbazia
e tutto quello che gli sta intorno per decine di chilometri non esistono
più. Il piccolo paese di Castelnuovo al Volturno però conta
solo quattro case distrutte dai colpi d’artiglieria: è un miracolo.
Gli abitanti, quelli che non erano stati evacuati, ritornarono così
alle loro abitazioni, mentre la guerra andava velocemente allontanandosi
verso il nord e l’incubo sembrava passato. Ma la mattina del 5 giugno una
jeep si arrampicò lungo i tornanti che portavano a Castelnuovo.
A bordo c’era un tenete inglese che si presentò al sindaco, Vincenzo
Martino, con un ordine perentorio: "Il paese deve essere immediatamente
sgombrato, dobbiamo effettuare una disinfestazione che durerà almeno
dieci giorni". La gente di Castelnuovo fu caricata sui camion, come
già era accaduto con i tedeschi, e costretta ad abbandonare nuovamente
le case: "Ci portarono più a valle sulla piana di Rocchetta
al Volturno". Giovanni Tomassone rivive incredulo quelle ore: "La
mattina del 6 giugno fummo svegliati da un rombo assordante, tutta la valle
si era riempita di mezzi militari, carri armati, cannoni, camion carichi
di soldati. Si assestarono attorno a Castelnuovo. Qualcuno di noi provò
ad avvicinarsi, ma venne sempre allontanato dalla polizia militare. C’erano
soldati di tutte le razze... ma non capivamo cosa volessero fare".
Gli abitanti di Castelnuovo avevano fatto largo a un grosso contingente
della 82a divisione dell’ottava armata alleata. Truppe affiancate da un
buon numero di cineoperatori. La bugia della disinfestazione era durata
poco: doveva essere girato un documentario.
"Per alcuni giorni", racconta Tomassone, "osservammo
dalle cime degli alberi le scene di una battaglia in piena regola, esplodevano
bombe fumogene, i soldati correvano a testa bassa e sparavano. Qualcuno
faceva finta di essere stato colpito e allora arrivavano i barellieri,
l’ambulanza che portava i soccorsi ... urlavano ma era tutto finto!".
Le cineprese le ricorda Carmine Miniscalco, anche lui abitante sfollato
di Castelnuovo. All’epoca aveva 17 anni: "Sparavano e filmavano, qualcuno
mi disse anche di aver visto uomini con le divise tedesche, ma io in quella
confusione non le ho notate. Le piante di quercia minate con la dinamite
e fatte saltare come fuscelli invece sì, quelle non le scordo".
Ma nessuno tra la gente della vallata avrebbe mai immaginato che lo
scherzo, quella finzione, si sarebbe trasformata di lì a poco in
tragedia. Ora i ricordi, i racconti di Tomassone e di Miniscalco si intrecciano
alle voci sdegnate di un gruppo di anziani seduti attorno a un tavolo nella
piazza del paese.
Smettono di giocare a carte e anche quelli che non avevano voluto rispondere
alle domande sui fatti di allora, quando si arriva alla cronaca del 17
giugno 1944 cambiano atteggiamento, si infervorano, lanciano imprecazioni:
"Ci svegliammo, con i colpi dei cannoni, tiravano verso la montagna,
un piccolo aereo girava in tondo nel cielo, qualcuno giura d’aver visto
una cinepresa spuntare da finestrino... poi i colpi cominciarono ad avvicinarsi
al centro abitato. A mezzogiorno il fuoco si concentrò sulle case...
il campanile della chiesa fu il primo edificio a essere colpito, un colpo
di cannone lo centrò in pieno! Vedevamo le nostre case cadere una
dopo l’altra senza sapere perché. I carri armati attraversavano
i campi di patate e i soldati, americani, inglesi, neozelandesi, marocchini,
si riparavano dietro i cingoli... ma da cosa?".
Per giorni il paese rimase avvolto da una nuvola di polvere dentro
la quale si intravedevano cumuli di macerie. Agli abitanti di Castelnuovo
al Volturno fu consentito di ritornare alle loro case solo ai primi di
luglio: l’85 per cento delle abitazioni non c’era più. A testimoniare
l’assurdo, il paese prima e dopo il bombardamento, restano o solo due foto,
tra altri cimeli bellici, in un piccolo museo allestito in una delle poche
case risparmiate dalle granate. La gente non riusciva a farsi una ragione
di un simile scempio. E anche la vicenda dei filmati era passata in secondo
piano, quasi dimenticata.
Finché non cominciarono ad arrivare le prime lettere, come quella
scritta da un cugdi Giovanni Tomassone, Domenico, fatto prigioniero dagli
americani in Nordafrica e trasferito in un campo di detenzione negli Stati
Uniti.
Nella lettera voleva sapere se davvero il paese era stato distrutto,
perché aveva visto un filmato dove era raccontata la storia di Castelnuovo
e del monte Marrone eroicamente conquistato dalle truppe alleate con i
soldati tedeschi che venivano snidati casa per casa...". La guerra
finisce e le lettere cominciano ad arrivare anche da Boston, da Los Angeles,
spedite da gente del posto emigrata in America ma con amici e parenti a
Castelnuovo. Tommaso Pitassi, da pochi mesi a Filadelfia, rimase senza
parole nella sala cinematografica dove proiettavano un "Combat film"
sulla guerra in Italia. La battaglia di Castelnuovo veniva descritta come
una delle più cruente, i soldati dell’Ottava Armata raffigurati
come eroi votati al sacrificio. Ma Pitassi sapeva che quelle scene di guerra,
i corpo a corpo, erano una pura messa in scena. Perché lui era lì,
su quella piana, quando erano state fatte le riprese, e sapeva anche che
gli unici ad aver combattuto a monte Marrone erano stati i soldati marocchini
e gli alpini del battaglione Piemonte. Perché per inglesi e americani
la parete di roccia alle spalle di Castelnuovo era assolutamente imprendibile.
In tanti videro negli Stati Uniti il documentario, figlio della propaganda
bellica americana, la storia riscritta con la cinepresa e le comparse.
A chi, come Esterina Ricci aveva fatto delle ricerche a Chicago, avrebbero
detto che quella drammatica farsa era stata necessaria perché alcune
"pizze", avvincenti filmati della campagna in Italia, erano bruciate
e andavano rimpiazzate. Recentemente qualcun altro si è nuovamente
messo sulle tracce di quel Combact Film: Michele Peri e Giuseppe Tomassone,
rispettivamente insegnante al liceo artistico di Cassino e presidente de
"Il Cervo", un’associazione culturale di Castelnuovo al Volturno.
"Non è solo curiosità. Quel filmato è un pezzo
di storia, vorremmo dare luce a questa vicenda della quale si è
parlato poco". Finora le ricerche hanno dato pochi frutti.
Negli archivi dell’Istituto Luce, Peri e Tomassone sono riusciti a
scovare solo alcuni spezzoni di un filmato girato nella zona prima della
distruzione del paese. Sono immagini dei soldati marocchini che per circa
tre mesi tentarono di conquistare monte Marrone: eccoli camminare in fila
indiana verso la montagna, e poi in momenti di relax nell’abitato di Castelnuovo,
dove si divertivano ad aprire scatolame con i denti e a molestare le donne
del paese. Sono poche sequenze, non hanno niente di epico ma, almeno queste,
nella loro semplice crudezza, sono vere.
(da L’ULTIMA CROCIATA) RINASCITA quotidiano del 1 agosto
2003 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)